Avevano una «moschea» in casa:
si rivela il rifugio di un “mago”
Sotto la vernice scrostata, raschiando mura farinose, picchettando su duecento anni di intonaci sovrapposti e sbucciando l’ultimo strato provò un sussulto il muratore all’opera nella vecchia catapecchia col tetto sfondato e la terrazza sul cuore della Palermo antica. Perché non avrebbe mai immaginato di scoprire con le sue dita impastate di calce, al terzo piano di quella malandata palazzina di via Porta di Castro, una parete blu con incomprensibili orientaleggianti ghirigori. Fu lo stesso sussulto di Giuseppe Cadili e Valeria Giarrusso, i giovani sposi che avevano comprato la casa da ristrutturare e che adesso ricordano quel giorno con emozione. Seppure quel giorno, ignorando cosa realmente celassero le pareti e dovendo fare i conti con finanze ridotte, decisero di dare precedenza al tetto sfondato, ai pavimenti, al resto dell’appartamento. Passarono così quasi sei anni prima di rimettere mano con un vero esperto, il professore Franco Fazzio, all’ultima stanza di passaggio fra lo studio e il disimpegno con la scala che porta alla terrazza mozzafiato su Palazzo dei Normanni circondato da mercati e cupole di Palermo.
Ed infine ecco venir fuori, sullo sfondo blu, iscrizioni arabe, versetti musulmani e disegni di richiamo islamico. Una sorta di «moschea blu» come fu subito battezzata da studiosi di storia e costumi locali alternatisi in un via vai di visite fra un ammaliato Vittorio Sgarbi, un incuriosito presidente della Lega islamica, Sekander Al Khotani, diversi arabisti e così via. Tutti a cercare di decodificare le iscrizioni datate Ottocento. Nella Palermo dominata mille anni fa dagli arabi, nella città abitata fino a un paio di secoli fa da tanti commercianti egiziani o tunisini, l’ipotesi dello stupefatto Sgarbi fu che la stanza-moschea, come possibile luogo di preghiera e devozione ad Allah, costituisse comunque «il simbolo perfetto dell’eterna presenza araba in Sicilia e della sua vocazione interculturale». Felici davanti al loro piccolo Tancredi che a 4 anni corre fra le maioliche di pavimenti ricostruiti come nelle case del Settecento siciliano, sotto volte affrescate con straordinari disegni liberty rimasti miracolosamente intatti nei saloni risparmiati dal disastro. E fra paesaggi bucolici, rovine, scorci di verdi campagne, fiumi blu, ricomposti riproducendo le poche mattonelle trovate dopo il saccheggio degli anni. Fra studio, salone e sala da pranzo, vola col triciclo il piccolo Tancredi, fermandosi però sulla soglia dell’area off limit, appunto, la moschea, la camera turca, la stanza delle meraviglie, come è stata ribattezzata tante volte.
Finché, dopo mesi di studi, tre esperti dell’Università di Bonn, un arabista, una archeologa e un iranista ribaltano adesso ogni precedente ipotesi. Stabilendo che quello fu luogo segreto di un occultista, un ambiente massonico dove attivare pratiche esoteriche. Tutto di nascosto, appunto in casa, perché proibito (allora come oggi) dall’Islam. Sconvolgente tesi codificata in una ancora inedita relazione firmata a Bonn da Serjun Karam, arabista e poeta, insegnante di arabo presso l´Istituto di lingue orientali e asiatiche, IOA (Institutfürorientalische und asiatischesprachen), Chiara Riminucci-Heine, archeologa e iranista, Sebastian Heine, iranista e specialista per le lingue orientali, entrambi dottori di ricerca nella sezione IOA su Islam e oriente (Islamwissenschaft und Nahostsprachen). Certi che quella stanza fosse «una camera magica, il laboratorio segreto di un occultista», spiegano così la ripetizione di due simboli, «di due ‘turga’» sui muri: «Per imprigionare le forze magiche e impedirne la fuga dalla stanza...». Il mix di magia, massoneria e Islam forse sorprenderà, ma i tre docenti sono certi: «É sempre stato molto rigoroso l’Islam nei confronti dell’esoterico. Più volte perseguitati gli insegnamenti segreti perché ritenuta eretica l’invocazione di forze divine...».
Un mistero che non inquieta Giuseppe e Valeria: «Per noi resta una stanza di meditazione dove scrivere, ascoltare musica, leggere un libro, comunque senza alcolici, né vino né birra...». Un riguardo. Trasmesso al piccolo Tancredi che conosce il confine da non oltrepassare col suo bolide a tre ruote. Fermandosi sotto il quadro di Santa Rita, donato a Giuseppe Cadili dalla madre, la signora Tanina, 87 anni, sconvolta dieci anni fa davanti alle macerie, quando la casa fu acquistata, convinta che il figlio fosse impazzito, buttando via i risparmi di una vita, pronta a pregare, adesso certa che «a salvarlo sono state le preghiere all’avvocata dei casi impossibili...». Sorride il figliolo davanti alla Santa, pure lei effigiata su una maiolica siciliana esposta fra storici cimeli di famiglia. Accanto alla valigia di cartone di emigranti come il padre, Nino Cadili, approdato nel 1910 in Argentina, ma rientrato per la Grande guerra, per combattere nel suo Paese. Accanto alla valigia, la bicicletta di allora. E nello studio una storica Singer a pedali, la macchina da cucire della bisnonna. Stessa epoca del monumentale orologio a pendolo che guarda il teatrino dei pupi ad altezza uomo in una casa, un po’ museo un po’ bazar, zeppa di storia e di giocattoli, lassù al terzo piano di via Porta di Castro dove, ormai, bussano tanti palermitani e tanti turisti incuriositi non solo dalla camera blu.
di Felice Cavallaro